L’orizzonte linguistico è il campo di battaglia della politica e della ideologia contemporanee, molto più che nel passato, sicuramente con una intensità e una pervasività che non hanno eguali nella storia. Oggi il conflitto nella politica depoliticizzata, un paradosso solo apparente, nell’Occidente postindustriale, quantomeno, passa per le parole, per il consenso che creano, per l’ordine sociale che strutturano, per il timore che incutono, come un tempo la forza degli eserciti, per il potenziale di disciplinamento sociale che dispiegano.
La politica postmoderna è una guerra di parole, conquistate le quali si innesca il processo egemonico, la presa culturale della polis. Ovviamente oggi le parole sono caricate di un senso che non è quello della politica novecentesca, innervata di conflitti di classe, di ideologie, di potenze, di sistemi socioculturali, quindi parole-mondo che esprimevano una forza tellurica sconosciuta nell’era delle passioni tristi: bastava la sola evocazione del socialismo, del comunismo, del collettivismo, del keynesismo, per definire i contorni dei rispettivi mondi culturali e ideologici. Nella odierna fase della politica spoliticizzata invece le parole sono segnate da un processo di neutralizzazione, sono disincarnate dalla materialità delle condizioni sociali oggettive, ma proprio in virtù di ciò esercitano il peso del loro potere.
Due casi di scuola:
“resilienza” e “divisivo”
Oggi tutto è resilienza: dall’economia alla società, dalla vita individuale alle relazioni sociali, dalla pizza ai social tutto è resiliente, non c’è ambito della vita associata che non veda ad un certo punto in agguato questa orrida parola, che peraltro suggerisce una sorta di resistenza rassegnata agli eventi avversi, come se fossero dati di natura, e non anche il prodotto di atti umani, di conflitti di interesse tra gruppi e individui.
Come se il potere suggerisse ai propri sottoposti una condotta disciplinata, senza colpi di testa, o pericolose messe in discussione: la discussione parlamentare sul Piano nazionale di ripresa e, guarda caso, resilienza in Italia è una dimostrazione lampante della nostra tesi: faremo da meri esecutori di piani e riforme decisi da altri. Divisivo, invece, viene applicato con rigida monotonia ogni qualvolta si manifesti anche la sola possibilità di prendere parte, di portare avanti una idea oppure un interesse specifico: “divisivo” è lo stigma che ferma tutto, depotenzia ogni conflitto allo stato nascente e riconduce il disordine alla monotonia del tran tran liberista, alla triste monocultura del pensiero unico.
Basti ricordare le discussioni in campo sindacale o le assurdità spese in occasione del 25 Aprile, pure la povera Resistenza è diventata “divisiva”. Una follia. Solo una generale presa di parola differente potrà fondare una nuova potenzialità politica, solo ridando significato alle parole, caricandole della vita concreta delle persone, potremo aprire una fase nuova.