E’ all’albeggiare del primo millennio che cominciano a germogliare, in Europa, i semi che produrranno i fenomeni dell’umanesimo e, più tardi, del rinascimento. Si inizia a guardare al passato con curiosità, molte antiche opere vengono riscoperte, lette e studiate. Tra queste anche i trattati di arte bellica, vere e proprie fucine di informazioni per i militari di epoca tardo-medievale e moderna.
Strano a dirsi, colui che mise maggiormente a frutto la lezione appresa fu un uomo che mai ebbe l’occasione di guidare un esercito sui campi di battaglia europei, eppure – come egli stesso soleva affermare – donò all’imperatore Carlo V d’Asburgo più territori di quelli lasciatigli in eredità dagli avi. Stiamo parlando di Hernan Cortès, il più abile, geniale e determinato dei conquistadores spagnoli del nuovo mondo.
Quando sbarcò sulle spiagge del Messico, in cerca di fortuna e di pagani da convertire, l’ex studente di diritto a Salamanca aveva con sé soltanto cinquecento soldati e un centinaio di marinai, e nessuna idea di che cosa lo aspettasse. In verità, la sua sorpresa ed anche i suoi timori dovettero essere grandi quando gli fu comunicato che l’intero paese era soggetto allo scettro di un potentissimo imperatore, che risiedeva con la sua corte in una grandiosa capitale “anfibia” tra i monti, a centinaia di miglia di distanza. Quell’imperatore, o Uey Tlatoani (=Riverito Oratore), era Moctezuma II, solo omonimo, per sua sfortuna, del più carismatico conquistatore azteco.
Visto che nulla sfuggiva all’attenzione del monarca, un’ambasceria mexica si presentò assai presto al cospetto dei nuovi arrivati, per porgere loro un diffidente benvenuto e – soprattutto – per studiarli. Ecco la descrizione del momento culminante dell’incontro, fatta dallo storico ottocentesco William Prescott ne La conquista del Messico: “Mentre si svolgevano queste trattative, Cortès vide uno del seguito di Teihtlile (il governatore azteco della provincia, che era a capo dell’ambasceria – ndr) intento a tracciare con un pennello un qualche schizzo, su tela, di uno spagnolo, col suo costume, l’armatura, e altri particolari interessanti, tutti riprodotti fedelmente. (…) a Cortès l’idea piacque e, conscio che l’effetto sarebbe stato ingigantito dall’inserimento nella composizione di un elemento dinamico, ordinò alla cavalleria di eseguire una dimostrazione sulla spiaggia che offriva buona presa agli zoccoli dei cavalli.
I movimenti rapidi e fieri del drappello che si esibiva in esercitazioni militari, l’apparente facilità con la quale i cavalieri guidavano i loro cavalli, il bagliore delle armi e il suono acuto delle trombe, tutto contribuì a riempire di stupore gli spettatori; ma quando udirono il tuono del cannone e videro fuoco e fumo uscire da quei terribili ordigni, e il fischio delle palle che sfrecciavano nella foresta frantumando i rami degli alberi, gli Aztechi furono sopraffatti dalla costernazione che invase persino il loro capo.”
Quale che sia il giudizio per l’impresa che si accingeva a compiere, non si può non provare ammirazione per la presenza di spirito e l’acume dimostrati da Cortès nell’occasione: nonostante il nervosismo suo e dei soldati per l’arrivo inatteso dell’ambasceria, egli riesce a volgere la situazione a proprio vantaggio, e l’effetto prodotto sugli inviati di Moctezuma (e, attraverso i loro rapporti, sul sovrano stesso) ne è la prova.
Il c.d. “elemento dinamico” di cui scrive Prescott è il ponte sul Reno di Cortès: d’altronde egli conosceva benissimo, per averli letti, i Commentari di Cesare (suo modello comportamentale e letterario), e nelle esortazioni ai soldati non mancava mai di riferirsi al valore e alla disciplina degli antichi romani.
Non fu, quella appena riportata, l’unica occasione in cui l’hidalgo usò l’arma psicologica contro gli aztechi nel corso della campagna messicana: ad esempio, volendo accreditare l’opinione che gli invincibili spagnoli ed i loro destrieri fossero anche “immortali” diede disposizione ai suoi di seppellire rapidamente e senza cerimonie i caduti a battaglia appena conclusa; inoltre, avendo notato che gli indigeni erano particolarmente impressionati dall’alta statura e dai capelli biondo-rossi del luogotenente Alvarado, lasciava a lui volentieri la scena, salvo dover intervenire quando, in più circostanze, la brutalità e l’arroganza del sottoposto misero a repentaglio il successo della spedizione. La profonda, ancorché fanatica, religiosità di Cortès non gli impedì peraltro di trar profitto dalla diffusa credenza, tra i popoli dell’Anahuac, che gli spagnoli fossero venuti ad annunziare il ritorno del dio Quetzalcoatl, o fossero divinità essi stessi.
Tuttavia, i più brillanti risultati nel campo delle psyops furono colti da Cortès nei confronti non degli avversari aztechi, bensì dei tanti popoli indigeni tributari o nemici dell’impero di Moctezuma: contrariamente a quanto in genere si crede, la capitale Tenochtitlan non fu conquistata da poche centinaia di conquistadores, bensì da un esercito composito formato in prevalenza da guerrieri indi! Resosi conto che l’impero azteco si reggeva sull’oppressione e il terrore, lo spagnolo comprese la necessità di assicurarsi l’alleanza di altre, più deboli nazioni: si spiega così la sorprendente clemenza di cui fa mostra nei confronti di genti che inizialmente gli si oppongono, come i Tabascani.
Presi prigionieri due loro capi Cortès li rilascia con l’incarico di riferire ai loro compatrioti che “avrebbe dimenticato il passato se si fossero subito sottomessi. Altrimenti, battendo l’intera regione a cavallo, l’avrebbe messa a ferro e fuoco, passando a fil di spada tutte le creature che la abitavano, uomini, donne o bambini.” La minaccia, mista a blandizie, ebbe pieno successo: i Tabascani passarono dalla sua parte.
Se si voleva battere gli aztechi, in ogni caso, bisognava avere al proprio fianco i più valorosi nemici di Moctezuma, vale a dire i tlaxcalani. Tlaxcala era una piccola repubblica oligarchica che costituiva una vera spina nel fianco per l’imperatore messicano: nel tentativo di sottometterla, gli eserciti aztechi erano incappati in rovinose sconfitte. Cortès, intelligentemente, “decise di propiziarsi i tlaxcalani facendosi precedere da un ambasciatore.
Scelse quattro dei Cempoalani più eminenti e inviò per mezzo loro un dono marziale – un berretto di stoffa scarlatta, una spada e un arco, armi che chiaramente suscitavano l’ammirazione generale degli indigeni. Accompagnò i doni con una lettera in cui (…) esprimeva la sua ammirazione per il valore dimostrato nella lunga resistenza contro gli Aztechi, di cui intendeva soggiogare l’orgoglioso impero.
Non ci si poteva aspettare che questa lettera, redatta in puro castigliano, riuscisse chiara ai Tlaxcalani. Ma Cortès ne comunicò il contenuto agli ambasciatori. I misteriosi segni grafici avrebbero forse impressionato gli indigeni come manifestazione di un’intelligenza superiore” (così Prescott che, da uomo dell’Ottocento, non aveva dubbi sull’innata superiorità “razziale” dei bianchi).
Non fu facile per Cortès far passare i fieri tlaxcalani dalla sua parte: gli indigeni si rendevano conto che i nuovi arrivati erano ancor più pericolosi di Moctezuma, e la libertà della repubblica più che mai in pericolo. Guidati dall’abile Xicotencatl, si opposero con coraggio agli spagnoli: ma in successive battaglie in campo aperto furono decimati e sconfitti.
Alla fine, il senato tlaxcalano si rassegnò ad accettare il patto di alleanza proposto da Cortès: uno dei capi si soffermò a lungo sulla liberalità mostrata dai conquistatori verso i prigionieri come ulteriore motivo per stringere un legame d’amicizia con uomini che sapevano essere amici oltre che nemici. La (calcolata, direi “cesariana”) clemenza di Cortès aveva dato i risultati attesi: il combattivo esercito repubblicano passò agli ordini del condottiero, e si mise in marcia alla volta dell’odiata capitale azteca.
Le facili vittorie spagnole, ottenute contro un popolo che sempre gli si era gagliardamente opposto, non mancarono di produrre una profonda impressione su Moctezuma: paralizzato dal terrore e dall’indecisione (“Tremò Moctezuma sul suo trono tra i monti”, annota con enfasi Prescott), egli non tentò neppure di ostacolare il cammino degli invasori. Tenochtitlan era già caduta prima che Cortès vi mettesse piede.
Più tardi solo il fanatismo dei conquistadores, unito alla loro spaventosa ingordigia, mise a repentaglio il successo dell’impresa; al di là di ciò, la capacità di Cortes di comprendere la psicologia di popoli così diversi, e di metterli, per le proprie finalità, gli uni contro gli altri; l’uso, sapientemente alternato, di blandizie e minacce, nonché la sovrana abilità nel manipolare le menti, servendosi in modo geniale degli strumenti a disposizione, fanno del piccolo hidalgo dell’Extremadura uno dei più brillanti fruitori di psyops che la storia moderna ricordi.
Il fatto che in seguito i messicani lo abbiano “rinnegato” ed esaltino oggi le eroiche figure dei principi Cuitlahuàc Cuauhtémoc, estremi animatori della resistenza indigena, è un tardivo, modesto risarcimento per le ingiustizie sofferte da un’intera popolazione che si trovò dalla parte sbagliata della Storia.