Gli esordi della civiltà greca e di quella romana sono velati dalla nebbia del mito, che inizia pian piano a diradarsi soltanto dopo alcuni secoli. Nulla di sconvolgente in ciò: l’infanzia di tutti i popoli del globo – dall’Europa all’Africa, dalle pianure asiatiche alle Americhe – è una terra incognita in cui pullulano divinità, animali fantastici e leggendari progenitori dalle doti spesso sovrumane. Eppure, a ben vedere, due culture che siamo avvezzi a considerare affratellate (quante volte sentiamo citare le radici greco-romane del c.d. Occidente?) presentano fra loro – soprattutto all’inizio – marcate differenze, che un contatto piuttosto traumatico contribuirà a sfumare.
I Greci compaiono sulla scena della Storia mezzo millennio prima dei Romani e – potremmo aggiungere – in veste assai meno dimessa. Verso il XIV-XIII secolo a.C. sono già in grado di edificare città fortificate di pietra, complete di templi, regge e sovrani. I Micenei sviluppano raffinate forme d’arte (scultura, oreficeria ecc.) e nelle loro corti risuonano le cetre di aedi abili nel comporre versi. Quasi ogni cittadella è un regno a sé stante, spesso in lotta con i vicini, ma è diffusa – almeno secondo la testimonianza di Omero – la coscienza di far parte di un unico popolo, che parla una lingua comune e all’occorrenza si compatta contro i nemici esterni. I ben equipaggiati guerrieri del I millennio a.C. combattono con lance e spade di bronzo e attraversano il mare a scopo di conquista su “concave navi” a vela.
I primi passi di Roma sono assai più malcerti, e non lasciano presagire un futuro entusiasmante: la città fondata da Romolo è un villaggio di capanne, i cui abitatori guardano alle genti confinanti come a estranei. Manca un senso di italianità e persino di “lazialità” in quei progenitori che, raccolti intorno a un capobanda (“il Primo Re”), sono nient’altro che una schiera di predoni – quanto alla poesia e alle arti ci vorranno secoli prima che sulle sponde del Tevere germogli qualcosa.
Nella mitologia greca, infinitamente più ricca e affascinante di quella romana, incontriamo figure di semidei ed eroi che hanno un rapporto quasi quotidiano con il divino: se sei “qualcuno” oppure una bella principessa un incontro con Atena, Afrodite o Zeus (e con satiri, mostri e magiche creature) non è un’evenienza straordinaria – e a un combattente impavido come Diomede può addirittura capitare di sopraffare il dio Ares sul campo di battaglia. Nella Roma dei primordi, invece, le divinità non si fanno vedere – e l’unico “eroe” a venir divinizzato è Romolo: ma ex post, dopo essere stato ammazzato senza complimenti dai suoi bravacci, che fonti più tarde (e compiacenti) promuoveranno a rispettabili “senatori”. Sotto i sovrani successivi (primi inter pares?) e più ancora dopo l’avvento del regime repubblicano l’espansione sarà sorprendentemente rapida: l’insignificante borgo diverrà ben presto una potenza con cui fare i conti, conservando però il suo “marchio di fabbrica”.
Merita spendere qualche parola sui supereroi della grecità, sovente di progenie divina: vale per il fortissimo Eracle ma anche per Perseo che, a cavallo dell’ippogrifo, uccide un gigantesco mostro marino dopo aver pietrificato la terrificante Medusa. Le imprese compiute da questi personaggi appartengono alla dimensione dell’inverosimile, del fiabesco – ma a colpirci sono anche le motivazioni che li spingono. Si battono per espiare una pena, per amore o spirito d’avventura, raramente per una “patria”: a guidare molti di loro è semmai la brama di gloria. Il prototipo di questi eroi “individualisti” è l’omerico Achille, pure lui figlio di una dea: benché invulnerabile (fuorché nel tallone) opta per una vita breve che sappia donargli tuttavia fama imperitura. E’ il re di Ftia e dei Mirmidoni, ma nell’Iliade lo incontriamo quasi sempre in compagnia di se stesso: è solo quando, in preda all’ira, sfida l’altezzoso Agamennone, solo sulla spiaggia del dolore e poi nella sua tenda, a macerarsi. Combatte, infuria e ammazza – diremmo oggi – per farsi un nome, ma non è una semplice macchina da guerra: prova affetti profondi, mostrando all’occorrenza nobiltà d’animo e una sensibilità profondissima. L’eroe acheo è infelice e lacerato nell’intimo, i suoi comportamenti eccessivi: terribile è la vendetta del Pelide, ma non meno drammatica la scena – appena intravista – in cui Aiace Telamonio si uccide con la propria spada per non sopravvivere al disonore. Ulisse, che gli ha sottratto con l’astuzia le armi di Achille, è una figura senz’altro più “moderna”, ma anche in lui l’anelito al ritorno a casa cede all’irresistibile coazione a conoscere e sperimentare. L’unico “patriota” cantato da Omero è in fondo Ettore, che lotta per necessità e non per sfizio – ma lui non è greco: è un Troiano dai riccioli scuri. A ben pensare non è affatto casuale che quando, trascorsi ormai sette secoli dalla fondazione, i Romani avvertiranno l’esigenza di dotarsi di un’epica nazionale ricorrano a Enea, un altro principe di Ilio, e lo raffigurino come un uomo pio e devoto agli Dei, alla stirpe e ai compagni.
Gli eroi della romanità arcaica non sono superuomini, bensì semplici cittadini cui l’innata virtus (il valore), consente di primeggiare in battaglia e nella vita pubblica. Non strozzano leoni né cavalcano destrieri alati: difendono ponti da forze soverchianti come Orazio Coclite, affrontano separatamente e abbattono – come fa un altro celebre Orazio – tre fratelli albani dopo averli sfiancati con una lunga corsa. Anche chi fallisce può meritarsi fama e rispetto: condotto davanti al re etrusco Porsenna, Muzio Scevola consegna senza un gemito al braciere la propria mano destra, rea di aver colpito l’uomo sbagliato. C’è spazio per tenzoni individuali, come quella che impegna Tito Manlio contro un Gallo gigantesco (IV sec. a.C.): il premio per la vittoria sarà il torques (una collana indossata dai guerrieri celti), che darà il nome alla famiglia dei Torquati. Ci sono poi condottieri semileggendari come Camillo e Cincinnato, ma in tutte queste figure ritroviamo un tratto comune: un ostinato, quasi fanatico amor di patria, che sovrasta ogni altra motivazione. Il già citato Orazio, una volta sconfitti i tre Curiazi, punisce crudelmente la propria sorella, colpevole di piangere uno dei nemici: soltanto Roma conta, e al traditore Coriolano bastano le rampogne della madre per ravvedersi e rinunciare alla vendetta (e alla vita). L’individuo è al servizio della collettività, non viceversa: un altro Torquato che, contravvenendo agli ordini ricevuti, accetta la sfida a duello di un guerriero latino (e vince) viene poi giustiziato dall’inflessibile padre console. Ordine e disciplina, insomma, contrapposti all’”anarchia eroica” che regna fra gli Achei.
Si possono tracciare delle similitudini, per quanto riguarda la mentalità, tra l’Urbe dei primi secoli e Sparta (si rammenti l’incitamento delle madri dei combattenti a tornare con gli scudi o sugli scudi), ma altrove nella penisola ellenica predomina ancora quel sentimento di amicizia e reciproca dedizione immortalato nei versi di Omero: in età classica il battaglione sacro dei Tebani è composto da coppie di amanti, e anche fra gli Ateniesi i legami di sangue e di partito prevalgono sovente sulla fedeltà allo Stato – pensiamo alle peripezie di Alcibiade, un fascinoso e geniale voltagabbana. Non stupisce allora che l’ultimo (e più grande) campione della grecità, Alessandro di Macedonia, prenda a modello comportamentale Achille e i guerrieri omerici, e riesca in una brevissima vita a sottomettere mezzo mondo – costruzione la sua non duratura, perché fondata più sull’estro individuale che su istituzioni solide (quelle che invece ha Roma).
Sarà solo in seguito all’annessione (brutale) della Grecia che i Quiriti cominceranno pian piano a ingentilirsi e si adopereranno per nobilitare con provvidenziali piogge dorate origini e storia patria: operazione culturale avviata da Scipione, avversata da tradizionalisti come Catone il Vecchio e ormai compiuta nella tarda età repubblicana. Giulio Cesare, che vanta la propria discendenza da Venere, è perfettamente bilingue e, per molti versi, assai più vicino spiritualmente ad Alessandro Magno che a Cincinnato.
La Grecia conquistata conquistò il selvaggio (ferus) vincitore, prestandogli l’epos di cui era sprovvisto.