Al principio dei ruggenti anni ’80 parecchi osservatori disinformati preconizzavano che l’Unione Sovietica avrebbe presto soppiantato gli USA come prima potenza mondiale: l’inaspettata sconfitta in Vietnam aveva scosso il mito dell’invincibilità americana e molti cittadini dubitavano ormai della superiorità tecnologica e soprattutto morale degli States che poi, durante l’era Carter (a mio avviso l’ultimo Presidente fedele ai valori professati), avevano rimediato nuove figuracce internazionali. Sfogliando l’edizione 1983 del Soviet military power – che ho gelosamente conservato, ma non trovo più – il lettore si imbatteva, affascinato e un po’ atterrito, nelle immagini pittoriche del nuovissimo bombardiere strategico Tupolev, presto ribattezzato per le sue forme eleganti “cigno bianco”, dei giganteschi sottomarini atomici classe Typhoon e dei caccia di ultima generazione Sukhoi Su-27 e MIG 29 progettati per confrontarsi da pari a pari con gli omologhi statunitensi già in servizio da più di un lustro.
L’apparenza, tuttavia, ingannava: sotto la luccicante buccia rossa la polpa della mela era rosa dai vermi. Oltrecortina infuriava una gravissima crisi economica (nella Polonia dell’ottantatré mancava il latte in polvere e nei negozi si commercializzavano surrogati del cioccolato) che stava generando massicce e destabilizzanti proteste sociali negli stati-satellite, ma la debolezza non derivava solo da questo fattore: era avvertibile all’interno della società sovietica un certo rilassamento emotivo, o se vogliamo spirituale, accompagnato da un diffuso senso di disillusione. L’immenso Paese era retto con mano rigida più che ferma da un incartapecorito burocrate privo di carisma, Leonid Brezhnev, che in politica estera si limitava a ribattere colpo su colpo agli Stati Uniti e in patria teneva a freno, dispensando un minimo di effimero benessere (almeno nei Settanta), tendenze disgregatrici già percepibili: il patriottismo sovietico generato dall’epica “Guerra patriottica” stava irrimediabilmente sbiadendo e si riaffacciavano le identità nazionali, seminatrici di discordia. Gli anni eroici dell’immediato dopoguerra erano ormai alle spalle: un periodo duro, ma pieno di speranze e (forse) illusioni in cui un popolo uscito decimato dal conflitto – la vittoria era stata pagata con oltre venti milioni di morti – aveva dato letteralmente la scalata al cielo. Sovietico era stato il primo satellite lanciato in orbita, nel ’57, così come sovietici erano il cosmonauta Gagarin e i protagonisti della primissima passeggiata spaziale – anche se negli anni ’50 e ’60 gli Stati Uniti godevano di un’indiscussa supremazia militare l’impetuosa crescita, pressoché in tutti i campi, dell’URSS moltiplicava gli sforzi entusiastici dei suoi cittadini e fuori dai confini suscitava sincera ammirazione. Pian piano invece lo slancio scemò: furono gli statunitensi, non i russi, a sbarcare sulla luna nel 1969, e da allora la classe dirigente sovietica antepose all’obiettivo di “catturare le menti” (degli europei occidentali in primis) l’esigenza concreta di raggiungere la parità militare con l’antagonista, garantendo la sopravvivenza di un sistema che, ingrigendosi, aveva rinunciato alla pretesa di sedurre il pubblico mondiale.
L’ascesa di Ronald Reagan, un istrione reazionario, ruppe lo stallo: i terrificanti tagli allo Stato sociale USA, già deboluccio, andarono a finanziare una vertiginosa corsa agli armamenti cui l’Unione Sovietica – che, come annota Hobsbawm, era sempre rimasta sulla difensiva – fu forzata a rispondere costruendo sempre più aerei, sommergibili e carri armati a costo di far precipitare, assieme al tenore di vita degli abitanti, la loro fiducia in un regime che andava ripiegandosi su se stesso. L’ex attore western era tutt’altro che un genio, ma sapeva coniare o recitare formule di sicuro impatto (l’URSS come Impero del male, ad esempio) e bluffava benissimo: il suo capolavoro fu l’invenzione delle c.d. Guerre stellari, cioè di un avveniristico sistema antimissile capace di distruggere gli ICBM nemici alla partenza e in volo. Ho usato il termine “invenzione” perché con le tecnologie di allora le Star Wars – con il loro corredo di stazioni orbitanti, satelliti armati di laser ecc. – erano pura fantascienza, e un tentativo di realizzarle avrebbe dissanguato economicamente l’America; la dirigenza del PCUS però non lo comprese e provò a imbarcarsi in un’impresa analoga, spendendo vanamente cifre da capogiro. Anche se gli spazioplani ipersonici non volarono mai Reagan conseguì il suo obiettivo: trionfò nella guerra della propaganda, rilanciando l’immagine internazionale degli USA e costringendo Mosca prima a un’affannata rincorsa e infine alla resa – una resa che avrebbe avuto tragiche conseguenze per decine di milioni di russi. La Cold war non fu vinta dalle armi e dalla tecnologia a stelle e strisce, ma dalla loro rappresentazione in perfetto stile cinematografico, oltre che dalla capacità di rendere desiderabile uno stile di vita assai discutibile.
Nessuno si attendeva un crollo così subitaneo e drammatico, i cui effetti si ripercuotono sul presente, anche se le avvisaglie potevano scorgersi nella sclerotizzazione di un modello che fino a due decenni prima pareva di successo: certo, i progressi socio-economici erano un po’ offuscati dall’autoritarismo del regime e dalle sue prove muscolari (l’invasione della Cecoslovacchia socialista fu uno shock per molti marxisti, non soltanto in Occidente), ma a imporsi all’attenzione generale erano le strabilianti conquiste tecnico-scientifiche, non ristrette al settore della missilistica. Le realizzazioni sovietiche in campo aeronautico turbavano i sonni di politici e militari occidentali. I cognomi di progettisti del calibro di Tupolev, Yakovlev, Sukhoi, Mikoyan e Gurevich divennero sinonimi di aviazione militare, ma alcune delle proposte più innovative furono avanzate da specialisti di minor fama come Myasishchev, Moskalyov e il “barone rosso” Bartini.
Robert(o) Orosdy Bartini nacque nel 1897 in Transleitania, cioè nella parte orientale dell’Impero asburgico. La madre era di origine ungherese, al pari del padre naturale, un nobiluomo con ascendenze italiane, che dopo la morte della giovane ex amante adottò il bimbo e lo avviò agli studi. Nella Prima guerra mondiale Bartini combatté in Galizia come ufficiale austroungarico, prima di arrendersi alle soverchianti armate zariste: durante la prigionia si avvicinò al marxismo e partecipò in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre; trasferitosi in Italia (essendo cresciuto a Fiume era perfettamente bilingue) completò gli studi di ingegneria senza però abbandonare la militanza politica. Iscritto al partito comunista dovette lasciare il Paese dopo la presa del potere da parte di Mussolini e si rifugiò in Unione Sovietica, dove avrebbe saputo rendersi utile. Oltre alla passione per la politica coltivava quella per il volo: dopo aver fatto carriera come pilota da caccia si dedicò con successo, a partire dagli anni ’30, alla progettazione di velivoli da combattimento. Incarcerato durante il fosco periodo delle purghe staliniane Bartini tornò in auge nel secondo dopoguerra: la sua inventiva e l’audacia delle soluzioni proposte attirarono l’attenzione delle autorità sovietiche che – benché egli non fosse a capo di un burò – ne incoraggiarono le iniziative.
Due modelli d’aereo anfibio da lui presentati precorrono il futuro: il primo è il MVA-62, una mostruosa macchina dal peso di 2.500 (!) tonnellate che, decollando come un idrovolante, avrebbe potuto volare sia ad alta quota – e a gran velocità – sia a pelo d’acqua, per andare a caccia di sottomarini atomici statunitensi. Possiamo ritenere quest’incredibile aviogetto “il padre di tutti gli ekranoplani” – vie di mezzo fra aerei e hovercraft – che i sovietici, e solamente loro, costruirono negli anni successivi. Se consideriamo che la scoperta dell’esistenza di un ekranoplano dalle prestazioni assai più “ordinarie” (ribattezzato il “mostro del mar Caspio” e lungo un centinaio di metri) scioccò gli analisti americani possiamo facilmente immaginare quanta impressione mista a sgomento avrebbe provocato la comparsa del gigante disegnato da Bartini, che rimase tuttavia sulla carta. L’ingegnere italo-ungherese riuscì in ogni caso a realizzare tre dimostratori in scala ridotta, denominati VVA-14: l’unico esemplare sopravvissuto è oggi conservato nel museo dell’aviazione russa di Monino, nei pressi di Mosca. Mi sarebbe piaciuto visitarlo: dubito che ne avrò mai l’occasione.
Fra tutte le creature di Roberto Bartini la più fantascientifica fu tuttavia l’A-57, un idrovolante supersonico di enormi dimensioni (69,5 m. di lunghezza, velocità massima prevista di 2.500 km/h) pensato per trasportare, oltre ad armi nucleari, un aereo-parassita senza pilota – con compiti di ricognizione e attacco – fissato sul dorso. Sebbene il progetto risalga ai tardi anni ’50 l’A-57, con le sue linee squadrate, ha l’aspetto di un’astronave: il segreto della sua imprevedibilità per qualunque nemico risiedeva nell’attitudine a rifornirsi dai sommergibili in mare aperto.
Dopo tre anni di sviluppo anche questo programma fu cancellato per ordine di Kruscëv, che preferì puntare sui più economici (e prosaici) missili balistici: il Politburo voleva sfruttare il momentaneo vantaggio sulla potenza antagonista e non svenarsi. Possiamo domandarci se l’entrata in servizio di superaerei come il MVA-62 e (soprattutto) il Bartini A-57 avrebbe mutato il corso della guerra fredda. Arduo dare una risposta: non credo che queste ideazioni, pur prodigiose, avrebbero spezzato irreversibilmente l’equilibrio fra le forze contrapposte, ma di sicuro l’apparizione di simili macchine avrebbe potentemente influenzato la percezione di nemici e “spettatori” – come abbiamo detto negli anni ’80 bastarono le fake news reaganiane a disorientare e gettare nel panico la dirigenza sovietica. Gli studiosi di psyops sono ben consapevoli che una riuscita esibizione di superiorità e forza risulta spesso più efficace e decisiva del ricorso a quest’ultima – un tanto senza contare che l’introduzione di idrovolanti supersonici avrebbe costituito una seria minaccia per le flotte statunitensi, avvezze a dominare incontrastate i mari. E’ anche vero che l’Unione Sovietica, per quanto assai più competitiva della Russia attuale, non disponeva delle risorse della potenza avversaria – accontentarsi di “inseguire” fu però un errore, come la Storia ha poi dimostrato.
Nonostante le delusioni patite, Roberto Orosdy Bartini rimase fedele al Socialismo e alla sua seconda (o terza) patria – l’URSS – fino alla morte, avvenuta al tavolo da lavoro nel 1974.