Di recente sono uscite due opere storiche dedicate a Nerone, imperatore dal 54 al 68 dopo Cristo: la trilogia firmata da Alberto Angela e un saggio-romanzo scritto dalla professoressa Silvia Stucchi, significativamente intitolato “Verità e vita dell’imperatore più calunniato della Storia”. Non si può tuttavia parlare di una moda passeggera o di un… ritorno di fiamma: benché Nerone sia morto quasi due millenni fa l’interesse attorno alla sua inquietante figura non è mai venuto meno, e la presenza “costante” in detti, narrazioni e kolossal hollywoodiani lo ha reso un personaggio familiare al grande pubblico e (a suo modo) pop. Il quinto (o sesto, se li contiamo a partire da Giulio Cesare) sovrano di Roma non ha mai goduto però di buona fama e nei secoli è stato rappresentato come l’incarnazione del Male (per essere precisi: dell’Anticristo!) prima che Adolf Hitler, cioè un soggetto ben più sinistro, lo soppiantasse in quel ruolo. Può meravigliare che la pessima nomea di Nerone abbia eclissato quella di suo zio Caligola, uno che gioiva nell’infliggere sofferenze fisiche e morali, ma la spiegazione è semplice: se è vero che l’Europa ha (anche) radici cristiane la sua cultura non poteva che ripudiare colui che per primo perseguitò i seguaci della setta fondata da un certo “Cresto” (così lo chiama Svetonio, supponendolo vivente all’epoca dei fatti).
La critica moderna ha rivalutato l’operato di Nerone (si veda l’eccellente biografia pubblicata dallo storico anglosassone Champlin), da un lato “relativizzando” i delitti asseritamente commessi, dall’altro mettendo in evidenza le doti intellettuali e di comunicatore di un uomo che, nel bene e nel male, seppe impressionare i contemporanei. Tutti concordano sul fatto che a Lucio Domizio Enobarbo piacesse dare scandalo, ma col tempo si è fatta strada la convinzione che questa brama di stupire non fosse frutto di insania né fine a se stessa: a monte c’era un progetto innovativo che andò delineandosi negli anni.
Abbiamo accennato prima a Gaio Caligola: c’è in effetti qualche somiglianza fra la personalità dello zio e quella del nipote. Ad accomunarli sono l’ascesa al trono in giovane età, la propensione agli eccessi, una certa dose di strafottenza e l’umorismo nero che caratterizza entrambi: Nerone definì beffardamente “cibo degli dei” i funghi – velenosi s’intende – che avevano tolto di mezzo il predecessore Claudio (subito divinizzato), spianandogli la strada per il potere, e non si adirò mai per le punzecchiature anche grevi indirizzategli da ambienti popolari. C’è però una significativa differenza: Gaio Caligola disprezzava l’umanità nella sua interezza e affermò in un’occasione – per celia, ma non troppo – di rammaricarsi che il popolo romano non avesse un’unica testa, in modo da potergliela recidere una volta per tutte; Nerone, al contrario, nutriva una simpatia genuina nei confronti dei popolani, di cui condivideva alcune passioni (il circo anzitutto) e con i quali amava mischiarsi in incognito. Abbiamo a che fare con uno spirito rozzo e volgare? Niente affatto: il figlio di Agrippina aveva ricevuto un’ottima educazione, sapeva ammaliare le folle con la sua parlantina e coltivò per l’intera esistenza il canto e la poesia. Il Nerone interpretato da Peter Ustinov in Quo vadis? che salmodia con voce chioccia versi d’accatto maltrattando la cetra è però una caricatura: il giovane princeps (perì, non scordiamocelo, a neppure trentadue anni) era un perfezionista che si sottoponeva quotidianamente a lunghi esercizi vocali e suonava lo strumento con riconosciuta maestria. Si dice che prima di ogni performance fosse preda di una violenta ansietà e che sulla scena si impegnasse al massimo, meritando sinceri applausi: era provvisto di una voce deboluccia, ma gradevole e intonata, e le sue creazioni letterarie non dovevano essere banali. Di lui ci resta, tramandato da Seneca, un unico esametro in cui luce e movimento armoniosamente si fondono: Colla cytericae splendent agitata columbae (Delle colombe di Venere i colli / baluginano volgendosi intorno). Oltre che un artista il sovrano era uno sportivo: appassionato delle corse di carri non esitava a esibirsi sulla pista alla guida di veloci e pericolose quadrighe (lo aveva fatto anche Caligola, ma “in privato”). La riprovazione suscitata nell’élite coeva da queste inclinazioni plebee (per non dire da schiavi) si è mutata col tempo in dileggio, ma le prove di abilità e destrezza offerte al pubblico non possono in alcun modo essere iscritte fra le deviazioni di cui Nerone avrebbe dato prova in vita. Di vizi ne aveva: beveva volentieri e parecchio, avido di piaceri carnali si intratteneva con femmine e maschi, era amante del lusso e della gozzoviglia. Niente di anomalo in tutto ciò: la morale sessuale dei quiriti era all’epoca alquanto lasca, l’indulgere ai peccati di gola (come ci racconta Petronio) pratica comune fra ricchi e benestanti. La bisessualità del principe potrebbe essere oggi addirittura spacciata per un tratto moderno, se non fosse che certe “liberatorie” scenette sanremesi sono uno squallido e sforzato remake di comportamenti allora assai più spontanei (e diffusissimi anche tra i farisaici difensori del mos maiorum, che chiudevano le virtù predicate in pubblico fuori dalla porta di casa).
Residuano accuse assai più gravi e circostanziate di quelle di dissolutezza, che giustificherebbero la taccia di mostro rivolta al nipote di Germanico, nato Lucio Domizio Enobarbo, e sulle quali vale la pena soffermarsi, ripercorrendo una travagliata avventura terrena.
Quando nasce la temibile madre è una donna in disgrazia: ha tramato contro l’imperatore e fratello Caligola, che tuttavia nei suoi confronti non incrudelisce, accontentandosi di esiliarla. Lucio trascorre l’infanzia ospite di una zia, i suoi primi precettori sono gente di spettacolo più che intellettuali. Con l’avvento al potere di Claudio, imbranato ma capace, le cose cambiano – specialmente da quando Agrippina trova il modo di sedurre l’anziano zio (quella dei Giulio-Claudii è una saga stile Beautiful, anche se alquanto più truculenta). Il monarca ha un figlio, Britannico, ma l’abile manipolatrice non fatica a metterlo in cattiva luce e ad anteporgli il pargolo, che nel frattempo ha trovato in Seneca un eccezionale maestro. Il filosofo di origine iberica è passato alla Storia come un modello di virtù senza esserlo: inneggia alla morigeratezza ma vive come un sibarita, e la sua ipocrisia non è sfuggita all’acuto Caligola. Harena sine calce: il monarca ha bollato con questa definizione sprezzante ed efficace l’oratoria del grand’uomo, intendendo che le belle esortazioni stonano con una condotta tutt’altro che irreprensibile. Gaio ha pienamente ragione: Seneca non si vergogna di adulare i potenti per poi ricoprirli di vituperi quando non possono più nuocergli (la sua Apokolokyntosis contro Claudio defunto lo arruola di diritto nella schiera dei peggiori voltagabbana della Storia). Lucio Anneo è però un uomo di vasta cultura e un fine dialettico: al rampollo di Agrippina dovrà insegnare le tecniche utili a convincere e manipolare gli esseri umani – non tutte però, perché l’ambiziosa figlia di Germanico desidera che la propria progenie regni ma non governi. Sarà lei con l’appoggio del Senato (garantitogli da Seneca) e dei militari guidati dal prefetto Burro a dettare la politica imperiale – hoc est perlomeno in votis suis.
(La seconda parte verrà pubblicata sabato 25 febbraio)