Il soprannome Barca – che significa “fulmine” – dato dai concittadini all’abile Amilcare, eroe della prima guerra punica, è meritatamente ereditato dal figlio Annibale, che fa di astuzia, improvvisazione e imprevedibilità le sue armi migliori nella guerra che lo oppone a Roma. Spiazza infatti i suoi nemici attraversando a fine autunno le invalicabili Alpi e poi, con un esercito logoro e stremato, ma motivatissimo, coglie vittorie eclatanti nella pianura padana. Come ci riesce? Semplicemente fa di testa sua e non rispetta i rituali: i quiriti sono metodici, in pace come in bello si attengono a regole prefissate, mentre il cartaginese si lascia ispirare dalle circostanze, inventa, costringe l’avversario a combattere in condizioni sfavorevoli dopo averlo disorientato. Per questo, benché capeggi un’armata qualitativamente e quantitativamente inferiore a quella repubblicana, ottiene un promettente successo sul Ticino e poi uno clamoroso sulla Trebbia; per questo, attirato il console Flaminio in una trappola, ne distrugge completamente l’esercito sulle rive del lago Trasimeno. I romani corrono spaventati ai ripari, ma l’intelligente tattica di Quinto Fabio Massimo non li soddisfa: vogliono annientare l’invasore, non limitarsi a sfibrarlo. Su Canne, località della Puglia, marcia un enorme esercito formato da una quindicina di legioni e guidato dai due consoli Emilio Paolo e Terenzio Varrone. La preponderanza numerica dei romani è schiacciante (di 2-1, almeno), e anche l’equipaggiamento dei legionari è superiore, ma Annibale conosce i punti deboli dei nemici – in primis la scarsa duttilità e la supponenza – e sa come utilizzare al meglio le risorse disponibili. Se gli ottimi fanti iberici costituiscono il nerbo delle sue truppe, infoltite da combattivi ma poco disciplinati guerrieri celti, la vera arma segreta del punico è la cavalleria numida, poco appariscente ma letale. I numidi cavalcano a pelo, senza far uso di briglie né ovviamente di staffe: privi di armatura, sono armati di giavellotti e pugnali; per proteggersi usano scudi di vimini. La fanteria pesante romana li irride: sono tutt’al più dei velites montati, ideali per compiere scorrerie e ricognizioni, ma pressoché inutilizzabili in uno scontro campale. Errore: i cavalieri nordafricani sono velocissimi, manovrieri e capaci – come secoli dopo i mongoli – di alternare finte ritirate a devastanti contrattacchi. A Canne sono proprio loro a infliggere il colpo di grazia all’esercito consolare, già aggredito ai fianchi: si gettano sulla retroguardia e ai legionari, ormai circondati e oppressi dal loro stesso numero in uno spazio ristretto, non resta che morire. Stime prudenti (quelle di Tito Livio) parlano di 45 mila caduti – Annibale ha stravinto, e soprattutto l’Urbe non ha più soldati da schierargli contro (primi di agosto del 216 a.C.). È a questo punto che il numida Maarbale emerge dall’oscurità per avanzare una suadente proposta al suo condottiero. Attesta Tito Livio che “Maarbale, il comandante della cavalleria, pensando che non ci fosse tempo da perdere, «prima che tu intenda appieno il significato di questa battaglia – disse – entro cinque giorni da oggi pranzerai vittorioso in Campidoglio. Seguimi: io ti precederò con i miei cavalieri prima ancora che (i romani) sappiano che hai intenzione di arrivare»”. Annibale resta spiazzato, non sa decidersi, dichiara che abbisogna di tempo per prendere una risoluzione. Benché straordinario è pur sempre un uomo: autore di un’impresa grandiosa deve smaltire stanchezza ed euforia prima di concentrarsi sui prossimi obiettivi. Allora Maarbale, lapidario (sempre secondo Livio): «Non tutte le qualità concessero gli dei allo stesso uomo: sai vincere, Annibale, ma non trarre profitto dalla vittoria».
Insomma: l’esitazione di Annibale avrebbe – per il cronista – salvato Roma dalla distruzione. È una conclusione che possiamo condividere oppure no? Per Giovanni Brizzi, studioso nostro contemporaneo che al duce cartaginese ha consacrato la propria carriera, la risposta è un secco no: nella sua immaginaria autobiografia del Barcide liquida con poche parole sferzanti Maarbale, che prima di Canne tremava al pari degli altri comandanti punici. Si tratta di una libera interpretazione, perché non sappiamo – nessuno ce l’ha tramandato – quali fossero i pensieri di Maarbale prima della battaglia; sappiamo però che egli aveva condotto con maestria i suoi squadroni anche negli scontri precedenti, cattivandosi la stima di Annibale. Dopo lo scambio di battute il numida rientra nell’anonimato, ma l’ipotesi avanzata da qualcuno di un accantonamento a opera del duce piccato è mera illazione: Annibale dava maggior peso alle azioni che alle parole, e Maarbale l’aveva fino a quel momento servito in modo egregio. È più probabile che l’alto ufficiale sia morto nel prosieguo della campagna, di spada o di malattia – ma neanche di questo siamo sicuri.
Sempre Livio ci racconta che, in seguito, Annibale puntò effettivamente su Roma: il quadro era tuttavia completamente diverso, scopo del condottiero era alleggerire la pressione su Capua (che sarebbe comunque caduta di lì a poco), non ottenere la capitolazione dell’Urbe. Considerato che dopo il trionfo di Canne il Barcide tentò effettivamente di avviare trattative con il senato romano e che egli non si prefiggeva la distruzione della Res publica ma una sorta di sua “smilitarizzazione” si è tentati di dar ragione a Tito Livio piuttosto che a Brizzi. Intendiamoci: quella di Maarbale era magari una smargiassata, frutto dell’ebbrezza di una vittoria inattesa (perlomeno in quelle proporzioni) ed esaltante. Impareggiabile in campo aperto Annibale non era un virtuoso della poliorcetica, e ne era consapevole: per mesi aveva faticato dinanzi alle mura di Sagunto e quelle di Roma – una metropoli di forse mezzo milione di abitanti – erano più alte, solide e spesse. Era impensabile prendere la città d’assalto, e un assedio avrebbe potuto rivelarsi fallimentare, anche perché cittadini atti a impugnare le armi non mancavano. Tuttavia una mossa dimostrativa avrebbe potuto essere coronata dal successo – rileggiamo attentamente le parole di Maarbale, che non sembrano più una generica esortazione: ti precederò prima ancora che sappiano che hai intenzione di arrivare (a Roma). Qui si parla di effetto sorpresa, di demoralizzazione del nemico – cioè di psyops. Se anziché i loro soldati fossero comparsi all’orizzonte quelli punici – e questo prima di ricevere notizie su una battaglia già data per vinta – i quiriti avrebbero davvero potuto perdersi d’animo e scendere a patti con l’invasore suo malgrado. In fondo era questo che il figlio di Amilcare si augurava: una sorta di armistizio a tempo indeterminato e la divisione del mondo mediterraneo in due sfere di influenza. Per un fenicio di cultura greca c’era abbastanza spazio nell’ecumene per un ristretto numero di potenze; i romani non erano tuttavia dello stesso avviso. Come gli americani odierni agognavano al predominio assoluto e non tolleravano la presenza – la stessa esistenza – di competitori: quando Annibale se ne rese finalmente conto provò prima a staccare dall’Urbe gli alleati italici, che fornivano preziose milizie ausiliarie, poi a distruggere l’economia meridionale, affamando Roma e desertificando le campagne. In base alle stime di Mario Silvestri la seconda guerra punica decimò la popolazione del sud Italia, impoverendolo e gettando le basi della sua futura arretratezza: si tratta forse di un’esagerazione, ma i danni furono da “conflitto mondiale” e per la prima volta nella sua storia la Repubblica si vide costretta ad arruolare gli schiavi. Alla fine però riuscì a vincere e a cancellare l’avversaria Cartagine dal novero delle potenze e delle città.
Poteva andare diversamente? Se avesse seguito il consiglio di Maarbale Annibale avrebbe forse indotto i romani ad accettare la pace, ma sarebbe stata una pace precaria, destinata a non durare. Di espugnare l’Urbe – l’abbiamo già detto – non aveva alcuna reale possibilità: certo avrebbe guadagnato del tempo prezioso, che gli avrebbe forse permesso di assumere il controllo di Cartagine e prepararla al meglio a una nuova, inevitabile sfida con la superpotenza italica. È lecito presumere che quest’ultima avrebbe avuto alla fine il sopravvento, anche perché a mettere in crisi Roma fu l’eccezionalità dell’uomo Annibale, non l’efficienza dell’apparato militare punico, nettamente inferiore a quello repubblicano.
La lezione di Canne è che il genio di un comandante e l’abnegazione di un esercito difficilmente possono avere la meglio, nel medio-lungo periodo, su un avversario ben organizzato, provvisto di maggiori risorse umane e materiali spendibili, fanaticamente fiducioso nel proprio “destino manifesto” e determinato a condurre la lotta fino alle estreme conseguenze.
È consentito fare un parallelismo tra la situazione di 22 secoli fa e quella odierna? Opino di sì, anche se al posto di una Roma allora in giovanile espansione abbiamo oggi un impero decadente, ma aggressivo e deciso costi quel che costi a far piazza pulita dei contendenti.
Dio ci salvi, se esiste, dalla hybris a stelle e strisce – e da chi per viltà o gretta convenienza la serve!