Dopo circa dieci anni dall’inizio del dibattito sull’euro un breve bilancio di questa stagione penso che sia necessario, ovviamente non sarà esaustivo e completo.
Cosa è rimasto, ma soprattutto, cosa si è imparato dal dibattito e dalle polemiche nate presso l’opinione pubblica dalle prime ampie discussioni sulla moneta unica?
Prima di tutto dobbiamo dire che qualsiasi possibilità di cambiamento che la conoscenza dei problemi inerenti all’adozione dell’euro da parte del nostro paese sono abortiti subito. A farsi portatore presso le istituzioni delle istanze di un movimento che vide la sua nascita (ma ognuno può trovare altre date, qui ci riferiamo ad un evento che ebbe risonanza mediatica di rilievo) dal summit di Rimini promosso da Paolo Barnard nel febbraio del 2012, furono due partiti politici: la Lega e il M5S.
Alcuni gruppi e partiti di sinistra adottarono certe posizioni noeuro ma non furono tali da caratterizzare la loro posizione politica rispetto a quanto invece fecero Salvini e il M5S. Innanzitutto si portò a conoscenza del ruolo che la banca centrale esercita nell’economia di un paese, i problemi inerenti all’emissione di moneta e l’influsso che esercita nei confronti del debito pubblico.
Si evidenziò quindi uno dei nodi fondamentali e irrisolti dell’euro, la mancanza di un bilancio comune dell’eurozona oltre alla mancanza di istituzioni federali che facciano da contraltare alla BCE e il ruolo subordinato al mercato che i paesi non aventi una propria moneta si trovavano a gestire, naturalmente ci sono anche altre questioni sul tavolo ma mi limito a sottolineare quelli che mi sembrano i più importanti.
C’è da evidenziare che tutte le questioni poste allora e in questi dieci anni rimangono largamente inevasi, con in mezzo crisi economiche, bancarie e del debito sovrano, solo alcune politiche di emergenza sono state adottate ma senza che queste intaccassero l’intelaiatura istituzionale europea, che era e rimane fatta da rapporti fra stati anche se in un quadro di più stretta collaborazione (o sudditanza a seconda di come la si voglia vedere).
Il 2018 con le elezioni generali italiane e l’ascesa di due partiti politici che avevano fatto della lotta ai trattati che intralciavano lo sviluppo del paese il loro programma principale, si era accesa laa speranza di poter rimettere in discussione da parte di uno dei paesi fondatori della UE almeno le situazioni più palesemente irrazionali dell’euro, soprattutto dopo i postumi e le batoste della crisi greca del 2015, con la pantomima del referendum contro il memorandum della troika il cui risultato fu sconfessato in 24 ore da parte dello stesso primo ministro greco, Tsipras, che lo aveva indetto.
Quello che più di tutto abbiamo imparato da queste vicende è stato senz’altro vedere la mancanza di una classe dirigente consapevole e conscia non solo dei problemi del paese ma anche delle necessarie azioni per potervi fare fronte. Azioni che abbisognano di alcune condizioni principali per poter dispiegare pienamente i propri effetti: il coordinamento tra la politica monetaria e quella di bilancio (o fiscale) e una politica industriale con obiettivi precisi da raggiungere.
Tutto questo però, per un paese inserito in una serie di trattati che corrispondono ad un forte vincolo esterno dovuto alla mancanza di controllo della propria moneta e di conseguenza dei tassi, fanno sì che l’appartenenza alla UE e alla moneta unica precluda l’utilizzo di una buona parte di questi strumenti.
(La prossima parte verrà pubblicata venerdì 23 giugno)