Una volta che sia stato rimosso il passato (quello prossimo insieme al remoto) e la Storia sia stata ridotta a cronaca giornalistica, se non a un pettegolezzo incentrato sul qui e ora, qualsiasi accadimento presente acquista un carattere di inedita novità, il raffronto con vicende precedenti diviene improponibile e, di conseguenza, risulta agevole per un sistema informativo monopolistico convincere il suo uditorio che una narrazione di comodo o addirittura artefatta sia veridica.
Lo schema da seguire è abbastanza semplice, e in genere si rivela efficace: il messaggio da diffondere non dev’essere troppo complesso e va ripetuto senza modifiche sostanziali fino allo sfinimento, affinché si imprima nelle menti del gruppo bersaglio e assurga a “senso comune”; per funzionare deve fare appello alle emozioni piuttosto che alla riflessione, gratificando l’ascoltatore (crociata antirussa) o, all’opposto, colpevolizzandolo (tema migranti). Ovviamente il propalatore ha necessità di accreditarsi agli occhi del proprio pubblico, sfoggiando un’autorevolezza derivante dal ruolo ricoperto all’interno della società oppure da un “certificatore” terzo, che può essere un’autorità morale o una disciplina scientifica. Più la versione è banale e manichea e meglio attecchisce, ma occorre ridurre – e ove possibile eliminare – le interferenze: le critiche espresse da chiunque contraddica la “verità rivelata” non vanno perciò prese in considerazione, ma ridicolizzate assieme al dissenziente, oggetto di un’azione delegittimante e demolitrice. L’obliterazione della memoria storica sottrae al contestatore argomenti spendibili in pubblico, perché se tutto avviene “per la prima volta” nessun termine di paragone è ammissibile o risolutivo e chi vi ricorre può essere accusato di barare, o comunque di voler intorbidare le acque per scopi (si insinuerà) riprovevoli. Per imporsi e silenziare il dibattito torna utile – mi ripeto – il riferimento a un’autorità di cui è “sconveniente” dubitare e che viene elevata a monolitica ipostasi: tanto per fare due esempi, la scienza nel caso del Covid, la democrazia e i suoi irrinunciabili valori in quello del conflitto ucraino. Il sistema propagandistico si arroga una superiorità etico-intellettuale indiscutibile (nel senso che è proibito discuterla) che rafforza la sua posizione in campo e gli consente di presentare una fiction come verità, asserendo magari che quella all’Ucraina è “un’aggressione mai vista dalla Seconda Guerra Mondiale” o la prima del dopoguerra europeo – dichiarazioni sfacciatamente menzognere che però l’oblio del passato rende credibili.
Bastano dunque la frequentazione di un liceo o una laurea umanistica per riuscire impermeabili alla disinformazione di regime? Purtroppo no, per una gamma di ragioni che spaziano dalla tendenza umana al conformismo alla paura di essere penalizzati, dal timore reverenziale nei confronti di chi detiene il potere alla scarsa fiducia in se stessi e nelle proprie capacità. Inoltre, la Storia non concede mai repliche esatte, ma tutt’al più rifacimenti: cambiano gli scenari, le circostanze, i protagonisti. Imperi e nazioni fioriscono e crollano, la tecnologia si evolve (dal ‘700 in poi a una velocità mai sperimentata prima) al pari di morale corrente e mentalità, eppure il protagonista della vicenda storica è sempre l’uomo – l’uomo di potere – il cui approccio alla realtà non sembra essere mutato nel corso dei millenni. Che abbia a disposizione schiere armate di bastoni e zagaglie oppure bombardieri atomici il suo obiettivo è il dominio sui vicini o, all’opposto, la preservazione dello status quo – e questo vale tanto per gli “stati” che per i singoli capipopolo. Dunque strategie e motivazioni di un condottiero fenicio e di uno statista contemporaneo possono presentare delle stupefacenti analogie: non è una bizzarria che nelle scuole di guerra americane si studi ancor oggi la battaglia di Canne (e neppure che alla gioventù allevata a credere, obbedire, combattere qualche zelante ministro voglia “risparmiare” lo studio delle guerre puniche).
Anche il lettore più smaliziato, tuttavia, prova sincera meraviglia quando si imbatte in un testo edito decenni fa e riferito a eventi lontani nel tempo che sembra descrivere la situazione odierna. “Assistiamo” da oltre un anno e mezzo al sanguinoso conflitto combattuto in Ucraina, a proposito del quale governanti e giornalisti occidentali dichiarano con voce stentorea che l’unica conclusione possibile è una “pace giusta”, coincidente con il ripristino dell’integrità territoriale del Paese “aggredito”, la resa dei russi, la condanna dei loro capi e, se del caso, lo smembramento della Federazione. Molti pensano che si tratti di affermazioni di prammatica, cui non è il caso di dare troppo peso, ma un precedente storico contraddice quest’interpretazione, in fondo rassicurante.
François (nato Ferenc) Fejtő era uno studioso di origine ungherese e cittadinanza francese, vissuto fin quasi a cent’anni, che Wikipedia definisce “uno dei maggiori intellettuali europei del XX secolo”. Abbracciò in gioventù l’ideale comunista, per divenire successivamente un critico implacabile dell’URSS, e alla fine degli anni ’80 pubblicò un saggio grondante nostalgia per l’Impero Austro-Ungarico, in cui era nato, dal titolo “Requiem per un impero defunto”. Fejtő non si limita ad asserire – la tesi è oggi universalmente accettata – che il crollo della Duplice Monarchia abbia aperto un vuoto nel cuore dell’Europa, spianando la strada a Hitler, ma arriva a sostenere, in contrasto con l’opinione dominante, che l’impero avrebbe potuto sopravvivere alle spinte centrifughe impresse da nazionalità insoddisfatte se le potenze dell’Intesa non si fossero incaponite a perseguirne la dissoluzione. Nella prefazione di Sergio Romano, scritta prima della caduta dell’Unione Sovietica, ritroviamo una frase che desta la nostra attenzione: “il suo Requiem per un impero defunto è qualcosa di più di una interpretazione del passato: è una guida alla lettura del futuro”. A posteriori possiamo concludere che il noto diplomatico ci ha azzeccato in pieno: vediamo il perché, tenendo conto delle esternazioni già sommariamente riassunte di decisori e attivisti pro NATO sulla disputa ucraina.
Nonostante titolo e sottotitolo (“La dissoluzione del mondo austro-ungarico”) l’opera racchiude un arco temporale assai più vasto rispetto al quinquennio della Grande Guerra: nella corposa prima parte l’autore narra le vicende del popolo magiaro sin dall’ingresso in Europa, soffermandosi sulla sua variegata composizione etnica e sulla secolare contesa con gli ottomani, quindi dà conto della lenta ascesa degli Asburgo, piccoli nobili svizzeri divenuti imperatori austriaci. Dedica parecchio spazio alla figura di Francesco Ferdinando, intenzionato a opporre l’elemento slavo a quello ungherese, e poi indaga sulle cause del conflitto, sfatando il mito – impostosi sull’onda della vittoria dell’Intesa – dell’esclusiva o preponderante responsabilità degli Imperi centrali per lo scoppio delle ostilità; emerge anche la strumentalità della rappresentazione dei due contendenti centroeuropei come potenze reazionarie e oscurantiste, in pretesa contrapposizione alla modernità liberale (oggi direbbero: ai valori democratici) dei loro avversari. Sono tuttavia certi particolari, puntigliosamente riportati, a suggerire un parallelismo con la situazione odierna.
L’avvento al trono di Carlo I d’Asburgo – succeduto all’amatissimo (dai suoi popoli, triestini compresi), ma miope Franz Josef – apre uno spiraglio di pace, che il nuovo sovrano vorrebbe riportare anche a costo di dolorose perdite territoriali. Carlo è un uomo pio, onesto e tormentato, che poco si fida del preponderante alleato germanico e auspica di rifondare l’impero rispettandone le nazionalità. Avvia trattative con la controparte, dimostrando – al lordo di qualche goffaggine, frutto di inesperienza – un intento sincero. Non servirà a nulla: interroghiamo Fejtő sul perché.
Nel capitolo intitolato “Egemonia francese o repubblicanizzazione dell’Europa” troviamo scritto (pagg. 317-318): “Guerra classica, la cui unica novità consistette nel carattere massiccio, senza precedenti, degli effettivi e degli armamenti messi in azione. Tuttavia, nel corso della guerra – che si impantanò più di una volta su dei punti morti, dai quali si usciva tradizionalmente con il negoziato o il compromesso – si presentò una idea inedita: quella della vittoria totale a tutti i costi (il corsivo è dell’autore). Si trattava non più di costringere il nemico a cedere, a indietreggiare, ma di infliggergli delle piaghe incurabili; non più di umiliarlo, ma di distruggerlo (stavolta il corsivo è mio, al pari di quelli che seguono). Questo concetto della vittoria totale condannava a priori al fallimento qualunque ragionevole tentativo di mettere fine, con un compromesso, a un inutile massacro. (…) L’idea (…) sembrava levarsi dalle profondità popolari. Aveva un accento quasi mistico. Era ideologica. Consisteva nel demonizzare il nemico, fare della guerra di potenza una guerra metafisica, una lotta tra il Bene e il Male, una crociata. Essa nacque in Francia (…) la Francia erede della Repubblica giacobina antimonarchica e anticlericale, e che la guerra incitava a condurre a termine, sul piano nazionale e su quello internazionale, l’opera introdotta dalla Grande Rivoluzione”.
Eccezion fatta per il riferimento alla Francia proviamo l’immediata impressione, leggendo queste righe, che esse descrivano vicende attualissime, nonché l’atteggiamento esibito dalle oligarchie atlantiste nei confronti della Russia (e in prospettiva pure della Cina). Non dobbiamo tuttavia dimenticare che un secolo fa la repubblica transalpina, oggigiorno ridotta a uno Stato semiautonomo, era assieme all’Impero Britannico la nazione-guida dell’Occidente liberale e che l’influsso giacobino sul suo sviluppo successivo è da Fejtő perlomeno sopravvalutato, visti gli esiti deludenti della grande rivoluzione (presa del potere da parte del Direttorio e poi di Bonaparte) e l’impronta schiettamente borghese e classista dei governi che si affermarono profittando delle insurrezioni ottocentesche. Una “crociata”, dunque, una lotta tra il Bene e il Male individuato in un nemico demoniaco, bestiale e subumano: per veicolare una ricostruzione della realtà caricaturale e venata di razzismo è però necessario il fattivo supporto dei professionisti di un’informazione che, essendo dalla parte “giusta””, si (autorap)presenta come libera e indipendente.
Che finanziatori esteri abbiano aiutato Mussolini a fondare “Il Popolo d’Italia”, giornale bellicista e antigermanico, è cosa arcinota, ma corruttela e “subornazione” costituivano all’epoca la regola: già prima dello scoppio del conflitto, e precisamente nel 1904 – riporta Fejtő, sulla base di una nota “mai smentita” pubblicata dall’Humanité nel 1926 – “la Tesoreria dello stato russo cominciò ad assegnare sovvenzioni ai giornali e ai giornalisti francesi più influenti, allo scopo di tacitare il panico che, al momento della dichiarazione della guerra in Estremo Oriente, si era diffuso tra i proprietari di fondi russi (pagg. 338-341)”. Può suonare paradossale, ma non risulta granché significativo, che quella volta a pagare mazzette – e a influenzare l’opinione pubblica di un Paese straniero – fossero i russi, peraltro in ottima compagnia: tedeschi, italiani, greci ecc. facevano lo stesso! Oramai conosciamo nomi e cognomi dei “pennivendoli” di un secolo fa (basta scorrere la lunga lista alle pagine 340-341!), mentre non abbiamo alcun elemento per affermare che questo o quel giornalista nostro contemporaneo si sia riciclato come agitprop della NATO per denaro, ma la testimonianza dello storico instilla più di qualche dubbio sull’imparzialità di un sistema mediatico che, in fin dei conti, obbedisce alle regole del mercato e fa capo ad editori “impuri” ben inseriti nel mondo economico-finanziario occidentale. Primum vivere, deinde philosophari può aver concluso più di qualche editorialista pensando, fiutato il vento, a come garantirsi un comodo prosieguo di carriera. Umano, troppo umano… anche se un tantino biasimevole. Nemmeno il trattamento inflitto ai “bastiani contrari” deve stupire, perché non costituisce affatto una novità: “Il fanatismo degli agitatori calvinisti o utopisti fu facilitato dalla censura – se non addirittura dalla soppressione – di qualsiasi informazione od opinione contraria a quelle che potevano essere gradite al potere. La censura permise di trasformare i mezzi di informazione in altrettanti organi di diffusione di una propaganda che designava il nemico dello stato e dell’ideologia repubblicana come il nemico dell’umanità, di un’umanità di cui «noi» abbiano il monopolio e il privilegio sacro di «difenderla contro l’inumanità» (pag. 333)”.
Cos’altro aggiungere? Nulla: tutto è già stato scritto nel libro-profezia… le profferte di pace di un’Austria in difficoltà ma non ancora allo stremo dopo molti traccheggiamenti vengono infine rigettate, e l’inutile strage denunciata da Benedetto XV va avanti per altri due anni, fino alla “vittoria totale” ottenuta dall’Intesa “a tutti i costi” umani e materiali.
Oggidì il copione sembra ripetersi, poiché il mondo sedicente libero mostra la stessa intransigenza di allora e il suo obiettivo è l’annichilimento di un nemico che però conosce la Storia e il destino toccato all’Austria-Ungheria e, a differenza di quella, dispone di un’infinità di testate atomiche. Urge bloccare questa deriva, e per farlo occorre rimandare a casa una classe politica lato sensu intesa che, quasi nella sua interezza, antepone gli interessi dell’egemone e i propri a quelli della comunità amministrata – che poi un popolo per metà obnubilato e per metà depresso sia all’altezza del compito è quantomeno incerto.