Capita spesso, nel corso dei dibattiti riguardanti questioni di interesse pubblico, che sebbene l’essenza di queste sia di per sé evidente, essa resti sullo sfondo. Di recente, ad esempio, la politica si è intrattenuta sull’opportunità di introdurre, anche in Italia, un salario minimo.
Si è parlato di salario minimo in quanto si è avuta la ricomparsa dell’inflazione nella scena economica.
Non è un mistero che in Italia i salari reali sono oggi inferiori rispetto a trenta anni fa e che, in molti settori (1), il trattamento economico dei lavoratori sia tutt’altro che dignitoso. Quella del contenimento della dinamica salariale è infatti una tendenza piuttosto risalente nel tempo.
L’essenza della situazione, relegata sullo sfondo, è però che si tratta di una scelta politica.
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Un vero salario minimo dovrebbe svolgere la funzione di un limite inferiore per la struttura dei salari, un pavimento retributivo sotto il quale nessun lavoratore dovrebbe prestare la propria opera.
Ma se questo venisse realizzato si porrebbe in netto contrasto rispetto alla struttura del potere così come esso è oggi distribuito.
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Il giorno 11 agosto 2023, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rivolto al CNEL un invito a redigere un documento di osservazioni e proposte in materia di salario minimo, in vista dell’approvazione della legge di bilancio.
Come è noto, il CNEL è un organo di consulenza delle Camere e del Governo. L’art. 99 della Costituzione gli attribuisce il compito di contribuire all’elaborazione della legislazione economica e sociale. Lo stesso CNEL detiene il potere di iniziativa legislativa. È attualmente presieduto da Renato Brunetta.
Tale documento è stato adottato il 12 ottobre 2023. Esso contiene analisi e proposte concernenti “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia” e consta di un inquadramento e analisi del problema e di osservazioni conclusive e proposte. (2)
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Nelle premesse già si intravede l’orientamento del CNEL: “Per altri profili, strettamente collegati alle motivazioni politiche di una proposta di legge in materia di salario minimo, il CNEL richiama la relazione del gruppo di lavoro, istituito con decreto ministeriale n. 126 del 2021, che è chiara nel precisare come, nel dibattito pubblico, la povertà lavorativa è spesso collegata a salari insufficienti, mentre questa è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno), la composizione familiare (e in particolare quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo) e l’azione redistributiva dello Stato”.
Richiamando precedenti suoi lavori, il CNEL ribadisce “la complessità delle cause che concorrono all’aggravarsi del problema del lavoro povero”, e precisa che “ha sempre sottolineato l’impossibilità di risolverlo con soluzioni semplicistiche, sollecitando anzi l’importanza di una visione d’insieme di tutte le sue componenti e comunque tale da legare il tema del salario minimo alla più generale questione salariale e al nodo della produttività. Costante è sempre stato il richiamo di tutte le componenti del CNEL alla centralità del sistema di contrattazione collettiva da intendersi non solo come una fonte di regolazione dei rapporti individuali di lavoro ma, soprattutto, come un meccanismo istituzionale di autogoverno delle dinamiche della domanda e della offerta di lavoro proprio perché sede naturale della compensazione tra istanze economiche e istanze sociali. Una istituzione ancora viva e dinamica che va difesa e sostenuta, quantunque non manchino elementi di criticità e sofferenza di cui si ha piena consapevolezza”.
Inoltre, sul piano metodologico da impiegare per la sua istruttoria, il CNEL fa “riferimento alla direttiva (UE) 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nella Unione europea, anche in ragione dei vincoli per l’Italia con riferimento alla sua trasposizione nel nostro ordinamento giuridico prevista entro il 15 novembre 2024” la quale, prosegue il documento, “non impone agli Stati membri alcun obbligo di fissare per legge il salario minimo adeguato (vedi espressamente, in questi termini, l’art. 1, § 4, lett. A della direttiva) e neppure di stabilire un meccanismo vincolante per l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi (vedi espressamente, in questi termini, l’art. 1, § 4, lett. B della direttiva)”. A detta del CNEL, “La direttiva è al contrario estremamente chiara nel segnalare, rispetto all’obiettivo di promuovere un sostanziale miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo” (art. 1), una netta preferenza di fondo per la soluzione contrattuale rispetto a quella legislativa”.
Il problema sarebbe allora quello di aiutare il “buon funzionamento della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari”, “strumento importante attraverso il quale garantire che i lavoratori siano tutelati da salari minimi adeguati che garantiscano quindi un tenore di vita dignitoso”. “Una contrattazione collettiva solida e ben funzionante, unita a un’elevata copertura dei contratti collettivi settoriali o intersettoriali, rafforza l’adeguatezza e la copertura dei salari minimi.”
Ergo, lo Stato membro interessato deve prevedere “un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime” e definire altresì, previa consultazione delle parti sociali o sempre mediante un accordo con queste ultime, “un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva”.
Sempre riferendosi alla direttiva europea, “In assenza di un sistema di contrattazione collettiva adeguato nel senso sopra precisato, in alternativa alla adozione di un piano di azione per promuovere la contrattazione collettiva, gli Stati membri possono prevedere l’introduzione di un salario minimo di legge stabilendo le necessarie procedure per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali (art. 5, § 1) eventualmente attraverso un meccanismo automatico di adeguamento dell’indicizzazione dei salari minimi legali, basato su criteri appropriati e conformemente al diritto e alle prassi nazionali, a condizione che l’applicazione di tale meccanismo non comporti una diminuzione del salario minimo legale (art. 5, § 3)”. “Nel caso della adozione di un salario minimo legale (e solo in questo caso) la direttiva impone agli Stati membri il ricorso a valori di riferimento indicativi per orientare la loro valutazione dell’adeguatezza dei salari minimi legali. A tal fine, possono utilizzare valori di riferimento indicativi comunemente utilizzati a livello internazionale, quali il 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio (art. 5, § 4)”.
Pertanto, si può già notare, il salario minimo rappresenta una soluzione residuale alla quale sarebbe possibile fare ricorso in assenza di un sistema di contrattazione collettiva adeguato e in alternativa alla adozione di un piano di azione per promuovere la contrattazione collettiva.
Secondo il CNEL, bisogna puntare l’attenzione: sul tasso di copertura della contrattazione collettiva con particolare riferimento ai contratti collettivi sottoscritti da soggetti realmente rappresentativi; su meccanismi diretti o indiretti di estensione generalizzata dei contratti collettivi quantomeno con riferimento ai trattamenti retributivi, tenendo presenti gli orientamenti della magistratura in materia; su estensione e diffusione di forme di lavoro irregolare e sommerso ed efficacia delle attività ispettive e di vigilanza; sull’impatto di un eventuale intervento legislativo sul sistema delle piccole e medie imprese; su identificazione (art. 11 del codice dei contratti pubblici) e adeguatezza dei trattamenti retributivi nel caso di appalti pubblici o contratti di concessione; sulla presenza di strumenti adeguati e affidabili rispetto alla necessità di conoscere gli andamenti della contrattazione collettiva e i relativi trattamenti salariali.
“La direttiva europea, là dove esiste un robusto ed esteso sistema di contrattazione collettiva non richiede ulteriori verifiche o adempimenti. Da ciò si può evincere che il trattamento retributivo previsto da un contratto collettivo qualificato (cioè, sottoscritto da soggetti realmente rappresentativi) sia adeguato”.
L’essenza della questione viene delineandosi laddove il documento del CNEL riporta che “Rispetto alla esatta misurazione delle tariffe contrattuali minime si segnalano criticità e diversi punti di vista o chiavi di lettura dei contratti collettivi nazionali. Tra gli stessi componenti del CNEL espressione della rappresentanza d’impresa e del lavoro non esiste piena condivisione sulle voci retributive da prendere in considerazione per quantificare il salario minimo previsto dalla contrattazione collettiva che, a seguito di una verifica empirica dei testi contrattuali, è concetto diverso, nella quasi totalità dei contratti collettivi, dal c. d. “minimo tabellare”. I componenti espressione delle categorie economiche e produttive ritengono in prevalenza corretto e imprescindibile attribuire alle sole parti contrattuali che sottoscrivono un contratto la funzione di determinare le voci che compongono i minimi contrattuali, senza applicare dall’esterno un criterio di lettura univoco e universale, che potrebbe falsare le dinamiche contrattuali, come è accaduto in passato con l’elaborazione giurisprudenziale della nozione onnicomprensiva di retribuzione, poi sconfessata nel 1984 dalla Sezioni unite della Corte di Cassazione”.
Qui, la ‘contesa’ verte intorno a quali voci definiscano la nozione di retribuzione da considerare adeguata o equiparabile a un salario minimo dignitoso. Si tratta di stabilire “quali voci retributive previste dai contratti collettivi concorrono, cioè, a definire il concetto di salario minimo adeguato previsto dalla direttiva europea”.
“Quanto alla adeguatezza in senso stretto dei trattamenti retributivi stabiliti dai contratti collettivi, si è già detto della non uniformità di vedute tra i componenti del CNEL rispetto alle voci retributive (dirette e indirette) da prendere in considerazione per la definizione del minimo contrattuale”.
“Questo anche in ragione del fatto che la struttura della retribuzione in Italia non è pensata in funzione di una tariffa oraria e che, diversamente da molti altri Paesi, esistono in Italia voci retributive sui generis come la tredicesima, la quattordicesima, l’elemento di garanzia rispetto alla contrattazione decentrata di produttività. Negli ultimi decenni le stesse parti sociali hanno concentrato, specie in alcuni comparti, le risorse dei rinnovi contrattuali sempre meno sul minimo tabellare, quale elemento di misurazione della professionalità rispetto alle scale retributive, per introdurre nuove forme di distribuzione del valore economico del contratto in direzione della valorizzazione della produttività, della flessibilità organizzativa, del welfare contrattuale e della bilateralità. Il sistema di contrattazione collettiva italiano si muove, nel complesso, in una direzione diversa da quella della tariffa oraria e del potenziamento minimo tabellare. Se comunque si volesse sviluppare un parallelo tra le tariffe contrattuali e una ipotetica tariffa legale, i parametri suggeriti dalla direttiva europea portano a valorizzare il 50 per cento del salario medio e il 60 per cento del salario mediano.”
Seguitando nel ragionamento, il CNEL dichiara che “Rispetto a questi indicatori è pertanto possibile affermare che nel complesso – anche in assenza di condivisione sui criteri di calcolo delle voci retributive che concorrono a definire il salario minimo adeguato – pur con non trascurabili eccezioni, il sistema di contrattazione collettiva di livello nazionale di categoria supera più o meno ampiamente dette soglie retributive orarie”.
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Se questi sono i presupposti, si ha già un’indicazione del fatto che una cosa è prendere in considerazione un minimo tabellare, al netto di altre voci retributive accessorie, e attribuire a tale minimo tabellare la valenza di ‘salario minimo adeguato’; un’altra è prendere in considerazione la retribuzione globale comprensiva di voci accessorie e fissare così un livello di retribuzione ‘adeguato’. Il primo caso andrebbe a vantaggio dei lavoratori, il secondo a vantaggio delle imprese.
Anche perché, come il medesimo CNEL riconosce, l’assetto della contrattazione è ‘sbilanciato’ verso la componente aziendale.
In Italia, negli ultimi decenni, si è costantemente cercato di indebolire la contrattazione di primo livello e di incentivare quella di secondo livello, maggiormente favorevole alle imprese. Un indirizzo che il CNEL, nella sezione conclusiva del suo documento, non manca di ricordare come meritevole di ulteriore incoraggiamento. Tanto che l’organo presieduto da Brunetta valuta l’idea di “individuare nel CNEL la possibile sede del National Productivity Board per l’Italia, la cui istituzione è raccomandata per i Paesi dell’area euro dal Consiglio dell’Unione europea e di cui l’Italia è ancora sprovvista, così da valorizzare pienamente il contributo dei corpi intermedi nel controllo delle dinamiche retributive legandole alle dinamiche della produttività”.
Un genuino salario minimo dovrebbe assumere quale parametro di riferimento il trattamento minimo, al quale poi si addizionano gli elementi accessori. Inoltre, si dovrebbe pensare a un meccanismo – che provveda ad almeno una buona copertura parziale – di recupero dell’inflazione.
Dovrebbe sussistere un livello decente di retribuzione minima ‘diretta’ (rivedibile nel tempo) da incorporare nei contratti, alla quale aggiungere gli elementi retributivi ‘indiretti’ soggetti a contrattazione.
A questo punto, dato che il CNEL ha già constatato – nel modo che abbiamo visto – che “il sistema di contrattazione collettiva di livello nazionale di categoria supera più o meno ampiamente dette soglie retributive orarie”, non gli resta che concentrarsi sulla diffusione dei contratti collettivi.
“La questione centrale, rispetto agli obblighi imposti dalla direttiva europea, è misurare in modo attendibile il tasso complessivo di copertura della contrattazione collettiva. Rispetto alla questione del minimo salariale il punto di interesse è, più precisamente, il tasso di copertura dei contratti collettivi nazionali di lavoro. I dati a disposizione indicano, al riguardo, un tasso di copertura della contrattazione collettiva che si avvicina al 100 per cento: una percentuale di gran lunga superiore all’80 per cento (parametro della direttiva). Da qui la piena conformità dell’Italia ai due principali vincoli stabiliti dalla direttiva europea e cioè l’assenza di obblighi di introdurre un piano di azione a sostegno della contrattazione collettiva ovvero una tariffa di legge”.
Anche qui, la fase istruttoria contiene già la ‘sentenza’: la contrattazione nazionale è diffusissima, perciò non occorre il salario minimo legale.
Purtroppo, il fatto che la contrattazione nazionale sia diffusissima non implica necessariamente che i minimi contrattuali trovino equivalente estensione presso la forza lavoro.
In effetti, il CNEL riconosce che esiste una fascia di lavoro povero, riguardante in modo più accentuato lavoratori temporanei, parasubordinati, lavoratori fittiziamente autonomi, lavoratori occasionali, stagisti, lavoratori con mansioni discontinue e lavoratori a tempo parziale involontario.
Ma, per queste categorie, “lavoratori, che di fatto non sono coperti (o pienamente coperti) dalla contrattazione collettiva con riferimento ai trattamenti retributivi integrativi e alle prestazioni di welfare contrattuale” non si immagina di andare oltre l’ipotesi “di introdurre una tariffa tramite contrattazione, eventualmente sostenuta da una adeguata normativa di sostegno, parametrata sugli indicatori della direttiva europea o comunque interventi legislativi ad hoc funzionali a incrementare il numero di ore lavorate nell’arco dell’anno.
Sempre con riguardo al lavoro povero, “Le rilevazioni disponibili e alcune analisi di dettaglio sui principali contratti collettivi segnalano che la tariffa legale dei 9 euro lordi proposta in Parlamento è inferiore alle tariffe orarie minime desumibili da quasi tutti i contratti collettivi sottoscritti da dalle confederazioni presenti al CNEL, se letti nella loro totalità e complessità (non fermandosi, cioè, solo alla paga base o minimo tabellare).
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La conclusione che si desume dal documento del CNEL è che in Italia non serve tanto un salario minimo legale; occorre, piuttosto, incentivare la contrattazione.
Insomma, non deve venir meno l’assunto – basilare per le imprese – che i salari devono restare entro un dinamica contenuta e devono essere flessibili, all’occorrenza, anche verso il basso.
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Come sanno anche i sassi, l’Unione Europea è nata con spirito e ideologia antitetici rispetto a istanze sociali. Non può certo essere definita il tempio del socialismo. Hanno buon gioco, dunque, istituzioni orientate al liberismo a richiamare il proprio orientamento sul problema del salario minimo a quello espresso dall’Unione Europea.
Tuttavia, la vigenza della già citata direttiva europea non compromette la possibilità, per le istituzioni italiane, di approvare un salario minimo legale (3), seppure in presenza di “un sistema di contrattazione collettiva adeguato”.
Se le istituzioni italiane non introducono un salario minimo, agiscono in tal modo per deliberata e precisa decisione politica. Il perché, è agevolmente intuibile: l’introduzione di un vero salario minimo – addirittura la sola ipotesi – non fa che suscitare la contrarietà delle imprese, per le quali la misura rappresenterebbe una riduzione dei margini di profitto. La questione è di una semplicità cristallina.
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Il problema, nonostante le apparenti buone intenzioni ostentate dal CNEL, è che la struttura delle relazioni contrattuali è improntata alla riduzione programmata dei salari.
Quando è tempo di rinnovo dei contratti scaduti – il che avviene sempre più di rado – i sindacati contrattano con le imprese il salario su base nazionale. Nel farlo, le parti prendono in considerazione le previsioni sull’inflazione.
Sulla base all’accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali che vige dal 2009 (soltanto la CGIL non lo firmò), i rinnovi dei contratti nazionali tengono conto dell’IPCA, l’indice di incremento dei prezzi depurato dai beni energetici importati. L’IPCA è preso a riferimento per i rinnovi dei contratti collettivi di lavoro, ma va da sè che con le retribuzioni contrattuali si acquistano anche tali beni, per cui il sistema infligge una perdita secca al potere di acquisto dei lavoratori. I lavoratori non possono che subire gli innalzamenti dei prezzi decisi dalle imprese.
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Altra questione nodale è la legislazione in tema di mercato del lavoro. La condizione di debolezza strutturale dei lavoratori nel mercato del lavoro non può far altro che ripercuotersi negativamente sui livelli salariali e sul potere contrattuale delle organizzazioni sindacali. Giova ripetere, è questa un’altra ben precisa scelta politica.
Il problema è qui l’intreccio della questione salariale con la diffusissima precarietà. Il che è naturalmente legato alla miriade di contratti ‘flessibili’ introdotti negli ultimi decenni in Italia da parte dei governi di tutti gli schieramenti politici.
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In conclusione, nel Paese il clima politico è ostile – anche se ciò non può apertamente essere detto – al salario minimo. Più salario significa maggior benessere dei lavoratori ma, di converso, maggior costo e minor profitto per le imprese. Il potere reale è del tutto sbilanciato a favore delle imprese, dunque permane un chiaro no all’ipotesi del salario minimo. Vince chi detiene il potere. Per quanto riguarda il CNEL, non ci si poteva aspettare qualcosa di molto diverso da parte di un’organo perfettamente aderente alla linea politica del governo.
Note
1) Ad es. multiservizi, vigilanza, spettacolo, commercio, cooperative sociali, altri ancora
2) https://www.cnel.it/Documenti/Osservazioni-e-Proposte
3) Numerosi Paesi dell’Unione Europea hanno un regime di salario minimo