Oggettivamente è il momento più difficile per la segretaria del Pd, Elly Schlein, da quando ha iniziato il suo percorso, la sua azione politica sembra appannata, nonostante il suo gran daffare tra manifestazioni e picchetti davanti alle aziende, quasi scolorita dopo il micidiale colpo inferto dalla Corte Costituzionale che ha cassato il referendum sull’autonomia differenziata, dando il colpo di grazia alla speranza dei dem di impostare un 2025 all’attacco della maggioranza similtrumpiana che sgoverna l’Italia. Infatti, l’intendimento della Schlein era quello di coniugare la sacrosanta crociata contro la secessione soft della Lega tornata padana, con l’indignazione per la controriforma del premierato e per la deriva securitaria del paese, avendo sullo sfondo le comunali in primavera, una occasione a portata di mano per tentare di infliggere un colpo alla Meloni. E invece la scomparsa del referendum sull’autonomia differenziata dall’agone politico, una “facile” leva, se vogliamo, di mobilitazione e consenso, con in più le comunali rinviate all’anno prossimo, hanno privato il Pd a trazione Schlein di un arma politica di prima grandezza, depotenziando, e di molto, l’efficacia della sua azione politica. Tanto che, come spesso succede in politica, i pretoni democristiani e i liberisti-progressisti del Pd hanno subito fiutato il sangue e hanno messo in piedi una manovra a tenaglia per stringere la segretaria in una morsa, con i due convegni in simultanea di Milano e Orvieto, con in più la ciliegina sulla torta dello scontento del perfido Franceschini, il fresco romanziere e politico in disarmo, che sparacchia la solita proposta politicista sul non fare un’alleanza organica con i 5S ma solo una quasi desistenza per ottenere più collegi possibile, come se gli elettori fossero dei fessi da intortare. È chiaro che sta cominciando con la Schlein la solita manfrina che ha visto soccombere tutti i suoi predecessori, un lento lavorio alle spalle e ai fianchi della malcapitata per abbreviarne il mandato, un cartellino rosso per la giovane segretaria colpevole di voler spostare il Partito “a sinistra”, come se fosse veramente possibile realizzare un Pd di sinistra dopo anni di supina accettazione di ogni sopruso neoliberista. Sono bastate poche e blande parole d’ordine schleiniane sul salario minimo, su una maggiore equità e giustizia sociale, per fare accendere la spia rossa ai “riformisti” e ai cattoliconi piddini, ma la vera goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il sostegno della segretaria ai referendum di Landini sul Jobs Act, per i tremebondi Don Abbondio del PD, tutti Chiesa e Confindustria, è stato troppo: bisognava agire. Ci manca solo Letta e il gioco è fatto. Ma la difficoltà della Schlein non è che la spia di un dato politico di fondo che si fatica ad accettare, al di là della buona volontà di alcuni, questo partito, così come è fatto, nella sua costituzione materiale e ideologica, e nei suoi obiettivi di fondo è irriformabile. Difficilmente potrà offrire una alternativa reale alla maggioranza attuale, soprattutto per una diversità sostanziale, antropologica direi, con i contiani pentastellati, troppo differente è l’elettorato di Conte con quello dei compassati piddini per poter costruire una coalizione credibile e competitiva. Oggi, come la destra mostra, c’è bisogno di radicalità, non di pannicelli caldi, e il Pd non avendola nelle sue corde non “se la può dare”.
